mercoledì 28 gennaio 2009

I problemi e la stupidità

Fino a poco tempo fa pensavo che un problema fosse qualcosa che era andato storto nella mia vita, ma che non dipendesse da me. Quando qualcuno mi diceva che avevo tale e tal altro problema pensavo, dall'alto della mia arroganza, che questi non mi stesse capendo e non riuscisse ad apprezzare il mio operato. Solo tardi, nella mia vita, ho capito che i problemi sono connaturati alla nostra esistenza, ne costituiscono una sorta di segnalazione provvisoria notturna per un atterraggio di un aereo fuori dalle piste dell'aeroporto. Quindi dobbiamo ringraziare chi ha messo quella segnaletica e dobbiamo fidarci dei segnali luminosi, altrimenti usciremo fuori pista e andremo a sbattere. Faremmo un danno a noi stessi e agli altri, che è poi quello che fa lo stupido. La terza legge della stupidità dice, infatti: "Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita". Questo è il grande rischio di chi non sta attento a quei segnali di pericolo o di salvezza che sono i problemi. Questa legge fondamentale enunciata da Carlo Maria Cipolla nella sua Teoria sulla stupidità presuppone che gli esseri umani rientrino in una di quattro categorie fondamentali:

1. gli sprovveduti, che sono quelli che si fanno sfruttare e che quindi danno vantaggi agli altri ma danni a se stessi;
2. gli intelligenti: vantaggi a se stessi e agli altri;
3. i banditi: vantaggi a se stessi e danni agli altri;
4. gli stupidi: danni a se stessi e agli altri.

Chi non ascolta i problemi è sprovveduto e quindi ci rimette in proprio o è stupido e quindi non solo si fa male da solo o da sola ma provoca problemi negativi agli altri. Nella migliore delle ipotesi viene vista come una persona che perde tempo o che spreca risorse.

Per tornare a me, dirmi che avevo qualche problema equivaleva ad arrecarmi un'offesa. Proprio non volevo accettare di avere dei problemi. Per me "problema" era sinonimo di qualcosa di irrimediabile, di grave che io avevo e che non potevo rimuovere o modificare. Quando, poi, l'indicazione di qualche problema riguardava le mie aspirazioni artistiche allora pensavo che i miei interlocutori non mi stessero capendo e che se avessi fatto vedere il mio operato a qualche altra persona più colta ed illuminata mi avrebbe compreso. Sono andato avanti così per tantissimo tempo, sognando e lavorando per quella età della mia vita in cui mai avrei avuto problemi. Ed utilizzavo ogni risorsa in tal senso: pensavo che studi, esperienze, riflessioni ecc. mi avrebbero prima o poi portato ad uno stato tale in cui non avrei avuto più alcun problema. Ma mi sbagliavo.

Mi accadeva quel che Eugen Herrigel descrive bene in Lo zen e il tiro con l'arco. Chi pratica una qualche disciplina ritiene spesso che arrivati ad un certo livello la padroneggerà senza problemi, salvo accorgersi poi che quel livello che si è raggiunti comporta nuovi e insospettabili problemi.

Un giorno ho iniziato a pensare che non si trattava del fatto che fossi un incompreso ma che avevo davvero dei problemi e che questi si potevano affrontare. E' stato durante i diversi laboratori teatrali che ho frequentato. Per qualche motivo un personaggio o una scena o una situazione non funzionano. Bisogna fermarsi, analizzare e riprovare finché tutto funziona ma accettare anche il fatto che qualcosa di fissato può tornare a non funzionare. Nelle altre arti e nelle imprese umane accade più o meno la stessa cosa. All'inizio abbiamo bisogno di un metodo rigoroso e preciso. Dopo potremo fare di testa nostra.

Umberto Eco in Come si fa una tesi di laurea racconta di studenti che fanno di testa propria e quando ricevono un voto basso o non all'altezza delle loro aspettative sono pronti a sostenere che non sono stati compresi. Questo può accadere ma è più saggio non fare subito di testa propria, controllare e padroneggiare bene tutta la materia prima. In questo consiste una delle maggiori differenze tra Occidente e Oriente. Basti pensare alla totale sottomissione dell'allievo nei confronti del maestro e alla fiducia da quelli riposta in questi.

Non accettare i nostri problemi o i problemi generati dalle nostre azioni e dalle nostre decisioni comporta solo ulteriori e più gravi problemi. Può accaderci di arrivare sull'orlo del precipizio un passettino per volta:
  • quando all'inizio c'era molto spazio tra noi e il precipizio siamo rimasti tranquilli;
  • quando poi ci stavamo avvicinando pensavamo che c'era sempre tempo di tornare indietro;
  • solo quando stiamo per cadere nel burrone ci pentiamo di non aver fatto nulla per non essere là in quel momento.
Accorgersi dei problemi, accettarli e ascoltarli può farci allontanare dall'orlo del Grand Canyon. Sarà difficile, doloroso perché ormai non ci resta che dare un forte colpo di reni all'indietro ma ci salveremo e in seguito impareremo a camminare verso dove vogliamo davvero andare, ma questo è un discorso da affrontare in una prossima occasione.